La dottoressa in rianimazione: “Turni estenuanti, il pannolone in reparto lo usiamo anche noi perchè non possiamo recarci al bagno”
In questo periodo di grande emergenza sanitaria, medici, infermieri e tutto il personale ausiliario sono diventati e veri guerrieri della nostra società. Si armano di tutta la forza che possiedono e tramite le loro conoscenze, sorreggono e aiutano i malati che hanno bisogno di cure.
Ogni giorno mettono a repentaglio la loro salute per proteggerci. Loro non sono immuni, sono indifesi come noi, non hanno vaccini o medicinali che possano curare loro piuttosto che noi.
Ciascuno di noi dovrebbe dedicare un messaggio di stima, di orgoglio verso tutti coloro che lavorano nel campo sanitario, che stanno combattendo in prima linea il diffondersi del coronavirus. Sono chiamati a fare turni infiniti, strazianti, e con la solita determinazione e professionalità danno il massimo.
Arrivano testimonianze da ogni città italiana, tutti accomunati dallo stesso stato di sofferenza e tutti con le stesse storie.
Silvia Castelletti è un “medico in trincea” nella lotta al coronavirus all’Auxologico di Milano.
“In reparto non possiamo spogliarci. Le tute sono monouso e ne abbiamo poche. Tratteniamo fame, sete e bisogno di andare in bagno. Ci parliamo con gli occhi, scriviamo i nomi sulle tute. Fuori ci riconosciamo dalle cicatrici sul naso. Ma i pazienti non li lasciamo mai soli. E alla fine ci affezioniamo”
Sono i protagonisti di questa lunga vicenda, il Coronavirus, che oltre a generare morti, genera anche sofferenze.
“Finalmente la fine del turno arriva. Otto ore rese ancora più infinite da sete, fame, bisogno di andare in bagno. Farlo durante il lavoro vorrebbe dire togliersi l’equipaggiamento protettivo. Troppo rischioso. E troppo costoso. Quell’equipaggiamento è prezioso e svestirsi vorrebbe dire doverlo cambiare, riducendo la quantità disponibile per i colleghi. Devi resistere e indossare un pannolone, nella speranza di non doverlo usare”.
Tante le testimonianze, tante le storie. A parlare c’è anche Claudia Gabiati ha 40 anni, è gastroenterologa, ha passato cinque anni in Pronto soccorso, altri sei in corsia, oggi lavora nella Covid Unit delll’ospedale Fatebenefratelli di Milano.
Affida il suo racconto alle pagine di Repubblica, dice che il Coronavirus «è velocissimo e cattivo», che le è capitato di dover «scegliere chi salvare», e ringrazia chi oggi plaude al suo lavoro, quello di tanti altri medici e sanitari, ma lancia un appello: «Ricordatevi di noi anche in futuro».
«All’inizio avevo paura – dice il medico – Ora no. Ti abitui alle regole di un ospedale in guerra, ti abitui al terremoto, a prendere una decisione al minuto». Tra cui quella più difficile: «Chi puoi salvare e chi no. Io l’ho fatto e devo conviverci ogni notte». «Marzo è stato il mese peggiore della mia vita, lottavamo contro l’invisibile. I letti in terapia intensiva non bastavano mai. E così capitava che dovendo scegliere tra un paziente 70enne, pieno di complicanze, e un altro che poteva farcela, sceglievi di intubare il secondo, lasciando andare il primo».
Da due mesi, Claudia Gabiati lavora 15 ore al giorno, «durante il turno non mangi, non bevi, parli a gesti, se devi andare in bagno perdi mezz’ora a svestirti, quindi non ci vai». E quando torna a casa mantiene la distanza dal marito, dormono in letti separati, mangiano a un metro.