Invalido al 75%, con una pensione di 280 euro al mese. Dopo 37 anni di contributi cerca lavoro
Ancora storie di persone invalide, che ricevono misere somme di denaro per vivere, costrette a lavorare anche se la malattia non permette loro di farlo.
Un uomo invisibile: la storia dimenticata del signor Mitolo
Nel cuore tranquillo di Pozzo D’Adda, un piccolo comune incastonato nella provincia di Milano, si nasconde una vicenda che grida disperatamente giustizia. È la storia di Giuseppe Mitolo, un uomo di 57 anni, con un’invalidità riconosciuta al 75%, che ogni giorno combatte non solo con la sua malattia, ma con un sistema che sembra averlo abbandonato.
Una vita spesa nel lavoro
Il signor Mitolo ha trascorso quasi quattro decenni della sua vita lavorando. Trentasette anni di contributi versati, tasse pagate, doveri rispettati. Ha sempre cercato di mantenersi autonomo, di non essere un peso per nessuno. Ha fatto il suo dovere, come tanti altri cittadini onesti, senza mai chiedere niente in cambio.
Ma oggi, nonostante i suoi sforzi, si ritrova senza pensione, senza aiuti adeguati, e con un’assegno mensile di appena 290 euro. Una cifra che non basterebbe nemmeno per coprire le spese di base di una singola settimana, figuriamoci per affrontare un mese intero, tra affitto, cibo, medicine, bollette e imprevisti.
L’ingiustizia dell’invalidità parziale
La malattia che affligge il signor Mitolo non è qualcosa che si possa ignorare. È debilitante, logorante, lo priva di forze, lo rende spesso incapace di affrontare anche le più semplici attività quotidiane. Eppure, per le istituzioni, non è sufficiente per definirlo inabile al lavoro. Nonostante il 75% di invalidità, gli viene detto che non gli resta che trovare un impiego.
Ma chi assumerebbe un uomo malato, con scarse energie, che ha superato da tempo la soglia dei cinquant’anni e che necessita di cure e riposo? La risposta è amara: nessuno. E così, l’unica alternativa è sopravvivere come può, giorno dopo giorno, in una condizione di degrado e profonda solitudine.
Lo sfratto: un altro colpo al cuore
Come se tutto ciò non fosse già sufficiente, il destino ha deciso di infierire ancora. Il signor Mitolo ha ricevuto lo sfratto. L’appartamento in cui vive, condiviso con la madre anziana e in difficoltà economiche, non sarà più la sua casa. Si ritrova a dover lasciare l’unico rifugio che gli rimane, l’unico posto che, nonostante tutto, chiamava “casa”.
La madre, fragile e bisognosa a sua volta di assistenza, non può offrirgli alcun sostegno reale. Anche lei è vittima di un sistema che ignora i più deboli, che si gira dall’altra parte davanti al bisogno, che applica numeri e percentuali come se dietro non ci fossero esseri umani, ma solo dati.
Una dignità negata
Il signor Mitolo non è un immigrato, non è uno sconosciuto arrivato da lontano senza radici nel territorio. È un cittadino italiano, nato e cresciuto in questa terra, che ha sempre cercato di rispettare le leggi e contribuire al bene comune. Non chiede miracoli, non pretende privilegi: desidera soltanto dignità.
Chiede il diritto di vivere, non di sopravvivere. Il diritto di essere riconosciuto, ascoltato, e soprattutto aiutato. La sua è una richiesta semplice: ricevere un sostegno economico adeguato, che gli permetta di affrontare la malattia con un minimo di serenità, senza dover lottare ogni mese per pagare l’affitto o per mettere qualcosa in tavola.
Quando lo Stato si dimentica dei suoi cittadini
Il caso del signor Mitolo non è unico, ma è emblematico. Rappresenta una fetta sempre più ampia di popolazione che viene lasciata indietro. Persone fragili, che per un motivo o per un altro, cadono nei buchi neri della burocrazia. Gente che ha lavorato una vita e che si ritrova, all’improvviso, senza certezze, senza futuro.
Cosa serve ancora per poter accedere a una pensione? Cosa bisogna perdere, oltre alla salute, per essere considerati degni di assistenza? Sono domande che restano senza risposta, mentre i giorni passano e la speranza si affievolisce.
Un appello alla coscienza collettiva
Il signor Mitolo oggi chiede solo giustizia, quella vera, quella fatta non di leggi astratte, ma di umanità. Chiede che il suo sacrificio venga riconosciuto, che la sua sofferenza non venga minimizzata, che la sua vita abbia ancora un valore.
Non si tratta di beneficenza. Si tratta di diritti. Di rispetto. Di civiltà.
E allora, forse, è giunto il momento di alzare la voce per chi non ce la fa più a parlare. Di raccontare queste storie non per compassione, ma per dovere morale. Perché un paese che dimentica i suoi cittadini più fragili, è un paese che ha smarrito la propria anima.