Firenze: bambino di 4 anni viene operato per tumore al cervello ma il tumore non c’è e resta invalido per sempre
Firenze, diagnosi sbagliata: operato due volte per un tumore che non esisteva. Bambino di 4 anni rimane invalido dopo interventi inutili: ospedale condannato a 3,7 milioni di euro

Una vicenda che scuote profondamente il mondo della sanità e dell’opinione pubblica. A Firenze, un bambino di soli quattro anni è stato sottoposto a due interventi chirurgici cerebrali nel 2012 e nel 2013 per un presunto tumore al cervello. In realtà, come è emerso anni dopo, non c’era alcuna neoplasia: il piccolo soffriva di encefalite erpetica, un’infiammazione che si sarebbe potuta curare con adeguate terapie farmacologiche.
Il tragico errore medico ha lasciato conseguenze devastanti: oggi il ragazzo, ormai sedicenne, vive in stato vegetativo permanente. Dopo un lungo processo civile, il Tribunale di Firenze ha condannato l’azienda ospedaliera Meyer a risarcire la famiglia con 3 milioni e 700 mila euro, riconoscendo la responsabilità sanitaria dei medici che seguirono il caso.
Un calvario iniziato con la speranza di una cura
Tutto comincia quando il bambino, all’età di quattro anni, inizia a manifestare forti crisi epilettiche, febbre alta e difficoltà di coordinamento. I genitori, spaventati, lo portano all’ospedale Meyer di Firenze, una delle strutture pediatriche più rinomate d’Italia.
Dopo una serie di accertamenti, i medici ipotizzano una rara forma di tumore cerebrale, individuata — secondo la loro diagnosi — nel lobo temporale. Viene così proposta una lobectomia temporale, un intervento altamente invasivo che comporta la rimozione parziale del tessuto cerebrale.
Nonostante la complessità dell’operazione, ai genitori sarebbe stata fornita, secondo i giudici, un’informazione incompleta e inadeguata, priva della reale chiarezza sui rischi e sulla mancanza di certezze diagnostiche. Convinti di salvare il figlio, i genitori acconsentono all’intervento.
La prima operazione e l’illusione di miglioramento
Il primo intervento avviene nel 2012. I chirurghi rimuovono una parte del lobo temporale, nella convinzione di eliminare il tumore che — secondo gli esami iniziali — stava provocando le crisi epilettiche.
Dopo un’apparente stabilizzazione, però, i sintomi del bambino peggiorano: le crisi si intensificano, e le sue funzioni cognitive iniziano a deteriorarsi. I medici decidono allora di sottoporlo a una seconda operazione nel 2013, questa volta più estesa, per eliminare quella che ritengono una recidiva del tumore.
Il risultato, però, è devastante. Il piccolo entra in uno stato di grave compromissione neurologica, con difficoltà motorie, perdita di autonomia e gravi danni cerebrali.
La scoperta dell’errore e la verità emersa nel processo
Negli anni successivi, grazie alle nuove perizie medico-legali richieste dai genitori, emerge una verità sconvolgente: il bambino non aveva alcun tumore.
L’analisi delle cartelle cliniche, delle biopsie e dei referti diagnostici ha rivelato che la causa dei sintomi era una encefalite erpetica, un’infezione cerebrale causata dal virus dell’herpes simplex. Una malattia che, se diagnosticata correttamente, avrebbe richiesto una cura farmacologica antivirale e non un intervento chirurgico al cervello.
Le perizie disposte dal Tribunale di Firenze, a firma del giudice Roberto Monteverde, sono chiare: i medici avevano a disposizione elementi sufficienti per capire che il quadro clinico non era compatibile con una massa tumorale. Nonostante ciò, optarono per la chirurgia, ignorando la possibilità di un trattamento conservativo.
L’esito giudiziario: un errore “inequivocabile”
La sentenza stabilisce che l’intervento di lobectomia fu inappropriato e dannoso, e che tra le procedure adottate e l’attuale stato del ragazzo esiste un nesso di causalità diretto.
Il giudice scrive: “È inequivocabile la sussistenza di un nesso tra un’assistenza sanitaria incongrua e la gravissima patologia encefalica da cui è affetto il minore”.
Il ragazzo oggi vive in una condizione di tetraparesi spastica e stato vegetativo permanente, con un’aspettativa di vita stimata tra i 35 e i 40 anni. Se fosse stato curato con i farmaci adeguati, secondo i periti, avrebbe potuto condurre una vita quasi normale, con solo lievi danni residui.
Il peso dell’informazione mancante
Una parte centrale della condanna riguarda anche la mancata informazione ai genitori.
Il Tribunale ha stabilito che i medici non fornirono un quadro chiaro e completo della situazione clinica del bambino, né delle alternative terapeutiche disponibili. Ai genitori non fu spiegata l’incertezza diagnostica, né i gravi rischi di un intervento tanto invasivo su un cervello in crescita.
La sentenza sottolinea che “l’informazione fornita è risultata del tutto insufficiente rispetto alla portata della procedura chirurgica e alle sue possibili conseguenze permanenti”.
Dodici anni di battaglie per ottenere giustizia

La famiglia del ragazzo ha affrontato un lungo percorso giudiziario, costellato di perizie, testimonianze e ricorsi. Solo dopo dodici anni è arrivata la sentenza definitiva, che riconosce la responsabilità medica dell’ospedale Meyer e condanna l’azienda sanitaria a risarcire 3,7 milioni di euro per danni patrimoniali, morali e biologici, oltre alle spese legali.
Il risarcimento coprirà le cure, l’assistenza quotidiana e i costi di sostegno di cui il ragazzo necessita costantemente.
Un errore che riapre il dibattito sulla sicurezza medica
Questo caso riaccende il dibattito sulla responsabilità professionale nella sanità pubblica e sull’importanza di diagnosi precise e interdisciplinari.
L’ospedale Meyer, noto per la sua eccellenza pediatrica, si trova ora al centro di una riflessione più ampia: come è possibile che, in una struttura di alto livello, non sia stato individuato un errore diagnostico tanto grave?
Gli esperti legali e sanitari sottolineano che questo episodio deve servire da monito sull’importanza della comunicazione tra reparti, della verifica incrociata delle diagnosi e del rispetto del consenso informato.
Una famiglia distrutta, ma determinata
Oggi il ragazzo vive assistito giorno e notte dai genitori, che non hanno mai smesso di lottare per lui.
La madre, nelle sue dichiarazioni, ha spiegato che non si tratta solo di un risarcimento economico, ma del riconoscimento di una verità negata per anni. “Non volevamo vendetta — ha detto — ma giustizia per nostro figlio e per tutti i bambini che meritano diagnosi corrette e medici più attenti”.
La vicenda resta una delle pagine più dolorose nella storia recente della medicina italiana, ricordando quanto un errore umano, in ambito sanitario, possa cambiare per sempre il destino di una famiglia.
